Resilienza e riconoscimento

Oggi riprendo da dove avevo lasciato ieri, ricordando che esistono modalità per individuare le risorse delle persone e proprio per questo è possibile arrivare all'apprendimento della resilienza.

Esiste un sistema che facilita l’individuazione delle risorse personali, che è quello di cercare di fornire risposte a queste semplici domande:
.quali eventi sono risultati particolarmente stressanti per me?
.in che maniera questi eventi mi hanno condizionato?
.nei momenti difficili ho trovato utile rivolgermi a persone per me significative?
.nei momenti difficili quanto ho appreso di me stesso e del mio modo d’interagire con gli altri?                                                                                                                                           .è risultato utile per me fornire assistenza a qualcuno che stava attraversando momenti difficili come quelli da me sperimentati?
.sono stato capace di superare le difficoltà ed, eventualmente, in che modo?
.che cosa mi ha consentito di guardare con maggiore fiducia al mio futuro?

La “resilienza” può quindi essere appresa, sviluppando l’autostima, l’autoefficacia, l’abilità di tollerare le frustrazioni della vita senza lamentarsi, la capacità di risolvere i problemi e di produrre cambiamenti, la speranza, la tenacia, il senso dell’umorismo.
La resilienza non è dunque una caratteristica che è presente o assente in un individuo; essa presuppone invece comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque in qualunque circostanza.
Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita, avere un alto livello di resilienza non significa essere infallibili , ma è resiliente chi è disposto al cambiamento quando necessario, chi è disposto a pensare di poter sbagliare, ma anche chi si dà la possibilità di poter correggere la rotta.


E quanto detto ci riconduce al riconoscimento dell’altro.
Riconoscere è la capacità di distinguere l’altro come individuo autonomo e ciò implica l’accettazione profonda che, riferito a chi guida in primis, “non ci sono solo io”.
Significa che le nostre due esperienze (in una relazione a due) ci sono entrambe appieno.
Ci sono due vissuti e non ce n’è uno che prevale.

Significa valorizzare nell’altro tutte le sue qualità, sia quelle evidenti ed esternate, sia quelle nascoste e soffocate, come la stessa resilienza.
Per finire, ci sono molte altre implicazioni, ma mi fermo a queste.

Per finire, è fondamentale l’atteggiamento del counsellor.
E’ di vitale importanza che, all’inizio di una relazione d’aiuto, l’operatore dia subito inizio al processo empatico, ponendosi lui come artefice del processo.
In altre parole, il counsellor avvia il dialogo empatico se il suo atteggiamento si basa essenzialmente su un approccio di benevolenza, scevro di pregiudizi, senza alcun atteggiamento di giudizio, e caratterizzato da una “volontà ferma”, evidente, di entrare in sintonia con l’interlocutore.

Gianni Faccin

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Bibliografia -  Fonti

1)  La motivazione comunitaria e il counselling – G. Faccin - G.E. L’Espresso 2013

2)   Introduzione al counselling – D. Toneguzzi - edigestalt 2007