Abitare la distanza

Scrisse Maria Zambrano che “…  in virtù e per opera della speranza l’uomo può realizzare quella cosa impossibile che è camminare sopra il proprio tumulto interiore, sopra il tempo che gli passa, e può in un certo senso elevarsi e sostenersi sopra la propria profondità”.

Ricollego l'articolo di oggi al precedente di ieri, e alle parole chiave speranza e campo.  

E quindi se c’è campo ci sono diverse tacche che lo confermano e questo vale per la telefonia cellulare.
Invece nell’incontro tra persone che ci sia campo è subito evidente dall’accoglienza reciproca, dal dialogo che si instaura, dai segnali del corpo, dalla susseguente empatia che le persone costruiscono nel qui e ora.
Ci deve essere una reciprocità, questo può anche essere chiaro ad entrambi, ma dire che il passaggio si realizzi facilmente non è così scontato.
La reciprocità richiede normalmente un primo passo da parte di una delle persone.
In effetti si possono dare diversi casi, ma soffermiamoci su due casi agli estremi.
Il primo vede l’incontro tra conoscenti.
Il secondo tra persone che non si sono mai incontrate, sconosciute.
In entrambi i casi scaturisce una “distanza” molto evidente.
Può esserci imbarazzo, eccitazione, timore, scrupolo, pregiudizio, condizionamento per quello che conosco già e molto altro.

Nel primo caso sono spinto facilmente a prefigurarmi il vissuto dell’interlocutore, le sue mosse, perché non voglio farmi trovare impreparato, fare una brutta figura, non essere d’aiuto, non essere all’altezza. Ho quasi un’ansia da competizione.
Sono portato a strafare e riesco quindi facilmente a complicare le cose. In pratica comprometto il dialogo e quindi tutto l’impianto relazionale.
In effetti abito malissimo la distanza, favorisco ulteriori allontanamenti.

Nel secondo caso, non conosco la persona. Nell’incontro cerco di immaginare la sua situazione prendendo spunto dall’atteggiamento, dal modo di esprimersi, dal vestire, dalle convinzioni che manifesta. Peggio, dal sentito dire.
Quindi giudico. Di conseguenza non entro in sintonia.
Faccio domande invasive perché non avendo elementi devo cercare di individuarli. Indago.
Credo alla fine di aver capito, quando non è assolutamente detto sia così.
Anche qui abito malissimo la distanza.

La distanza va "abitata".

La distanza va abitata veramente con delicatezza e con intensità. Serve portarsi verso l’ignoto e nello stesso tempo ritirarsi nelle cose certe o appena apprese.
Serve chiedere con rispetto per capire meglio, ma serve soprattutto e quasi essenzialmente “ascoltare”.
Va evitato ogni pregiudizio e giudizio. Va vissuto il momento presente tralasciando il voler sapere.
Va imbastita una trama, come dice James Hillman, “passando da una domanda – che cosa accadde allora? – a quella – perché avvenne?”.
Se c’è un incontro tra persone, va vissuto con pienezza il passo dell’accoglienza.

L’accoglienza è un’intesa silenziosa, che inizia prima con l’attesa e la preparazione dell’incontro.
L’accoglienza scalda la costruenda empatia.
L’accoglienza permette subito la giusta reciprocità, il mettersi in sintonia, essere pronti l’uno all’altro.

L’incontro si sviluppa immediatamente in un dialogo. “Chi guida il dialogo è colui che pone le domande”, dice un vecchio adagio. Ed è così, ma le domande servono per concimare il campo delle parole, delle espressioni che l’interlocutore userà per raccontarsi.
Quindi è importante che vi sia ascolto attivo e attento da parte di chi guida.
Chi si racconta troverà molto giovamento già da questa fase. Il sentirsi ascoltato, compreso, il sentirsi oggetto di attenzione.
Tutte le persone desiderano soprattutto questo: essere oggetto di attenzioni, attenzioni esclusive anche se semplici.
In altre parole: essere amate.
I segnali del corpo sono un avvicendarsi di espressioni del viso, della bocca, dei gesti delle mani, delle gambe, del busto. Importanti i messaggi provenienti dagli occhi, dalla bocca e dal naso. I sentimenti più intimi vengono manifestati dai titolari dei sensi su ordine perentorio del nostro inconscio. Non si può sfuggire ad esso.
Gli occhi, in particolare, sono un riflesso decisivo dello stato d’animo di una persona.
Qualcuno diceva: “gli occhi sono lo specchio dell’animo”. Ed è così.

Ed ecco che si crea l’empatia.
Su questo è stato scritto un mare di cose.
Io ho scelto due descrizioni che meglio parlano dell’empatia e che mi piacciono particolarmente.
Le sento mie.
Sono direttamente immerse nell’incontro con l’altro.
Dice Edmond Jàbes: “Non so chi tu sia, ma so che mi somigli: ma non è per questa somiglianza che mi sei caro, è perché non hai ancora un nome”.

Dice Edith Stein: “Entro in una dimensione di sospensione della mia identità, faccio spazio all’atto empatico e poi devo fare un grosso lavoro, non solo psicologico ma anche razionale, per ricostruire per differenza il mio esserci”
La Stein trova un nuovo senso di empatia, ovvero individua un vissuto non più elaborato per identità, ma per differenza.

Quando avviene un incontro con un’altra persona, noi non sappiamo che cosa troviamo, quali storie, quali drammi, quali disperazioni, quali sofferenze, ma anche quali gioie, quali sfide, quali progetti, quali istanze.
Non sappiamo nulla, sia nel caso di un conoscente, sia e soprattutto nel caso di qualcuno che vediamo per la prima volta.
Trovo che un approccio originale che favorisca l’incontro, scevro da tossine (per esempio i pregiudizi, giudizi morali, ecc.), sia l’approccio con benevolenza.
Incontro l’altro e “gli voglio bene”, e basta.
Si tratta di rivoluzionare il nostro usuale approccio quotidiano, in famiglia, in compagnia, in azienda, in associazione, al bar, in tram o in treno.

Gli voglio bene, e basta.

Non conosco chi sto incontrando, non so chi incontrerò dietro l’angolo, non so chi incontrerò più avanti sul sentiero, ma porto con me la benevolenza.
Benevolenza rappresenta il “volere il bene altrui”.
La benevolenza mi aiuta a “abitare la distanza nelle relazioni”.
E’ interessante come questo stato d’animo mi abbia permesso di affrontare colloqui tesi o difficili, in cui sarebbe stato più facile decidere preventivamente l’esito.
E’ uno stile che facilita l’incontro delle persone, perché produce empatia.

Gli voglio bene, e basta.

Gianni Faccin

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Bibliografia - Fonti

1) La motivazione comunitaria e il counselling - G. Faccin - G.E. L'Espresso 2013

2) Empatia e sviluppo morale - M.L. Hoffman - Il Mulino

3) Il problema dell'empatia - E. Stein - Ed. Studium

4) I Beati - M. Zambrano - Feltrinelli Ed.